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Con l’aggravarsi della situazione climatica, ci stiamo accorgendo di quanto sia davvero importante l’acqua. Governi e imprenditori cercano di correre ai ripari ma la situazione è complessa e le soluzioni proposte sembrano solo la solita sfilata di belle parole.
Il summit "Acqua e Clima. I grandi Fiumi del Mondo a confronto", tenutosi a Roma lo scorso ottobre, ha messo in campo le migliori intenzioni industriali e politiche per un piano di governance aziendali basato sulla consapevolezza del climate change, su impegni improntati alla resilienza, su cooperazioni in larga scala e sul sostegno alle politiche di utilizzo sostenibile della risorsa-acqua.
Come spesso accade di fronte a problemi così a lungo trascurati, esattamente come già successo per la legge sugli ecoreati o il ddl di riforma dei parchi, si cerca di porre rimedio con piani complessi, cercando di recuperare il tempo perduto.
Purtroppo non sarà una lettera del Papa o una riunione di ministri a spostare gli attuali equilibri: come sempre occorre ri-partire dal basso anche perché, soprattutto in Italia, la gestione dell'acqua è una materia complessa, basti pensare al referendum del 2011 i cui effetti ancora oggi sono difficili da analizzare.
Inutile soprattutto sperare di arginare fenomeni metereologici estremi con progetti nazionali, quando l’amministrazione di bacini idrici locali -come nel caso del lago di Bracciano- ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza soprattutto durante la siccità della scorsa estate. Inutile discutere di piani anti alluvione statali, quando, per esempio, la gestione di pochi chilometri di Dora Riparia in Val di Susa cambia referente ogni cento metri, creando un caos burocratico che rallenta o blocca i processi di messa in sicurezza degli argini.
Ci aspetta quindi l’ennesima rivoluzione: dovremo imparare a bilanciare i periodi di secca con i fenomeni alluvionali, adottare nuovi sistemi di raccolta delle acque reflue e rendere più efficienti i bacini artificiali.
Soprattutto dovremo maturare un utilizzo sostenibile: l’acqua, basilare per moltissimi processi industriali e agricoli, finisce troppo spesso per essere malamente sprecata. Anche l’uso personale è sregolato: per un essere umano sono sufficienti 4 litri al giorno per vivere, mentre i cittadini europei ne utilizzano giornalmente circa 165 litri per nucleo famigliare.
Ai tempi del cambiamento climatico, se le cose nel nostro Paese sembrano lontane da una soluzione, nel resto del mondo lo scacchiere è forse ancora più complesso.
Lo sviluppo improvviso di alcune delle aree più arretrate del globo ha accresciuto la sete di industrie e uomini. Così, diverse multinazionali hanno sfruttato questo cambiamento di rotta obbligato, avviando una nuova politica di risparmio dell'acqua che sta portando loro diversi benefici. Consente un ottimo ritorno mediatico, zittisce gli ambientalisti e crea una sorta di tesoretto privato da non condividere con nessuno. Si va verso un colonialismo idrico?
Di certo se si sottopone l'uso di un determinato bene ad alcune condizioni, da un lato lo si tutela, dall'altro lo si rende disponibile solo a chi ha i mezzi per attuare quelle condizioni.
Da uno studio inserito nel ‘Transboundary Waters Assessment Program’ dell’ONU, emerge che, nei prossimi 15-30 anni, i rischi di conflitti sono destinati a crescere in aree nelle quali sono in costruzione nuove dighe, dove i Paesi limitrofi affrontano condizioni di grave siccità o dove sono assenti trattati internazionali che regolino le distribuzioni idriche: l’acqua potrebbe a breve trasformarsi in una risorsa somigliante, soprattutto nel male, al petrolio.
Il clima che cambia ci chiama quindi ad una nuova sfida, globale ed individuale, per difendere l’elemento che più di ogni altro ci rappresenta: non siamo forse fatti in gran parte d’acqua?
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