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Cosa dice la nuova direttiva del parlamento europeo che tutela i consumatori dalle pratiche insidiose dei brand, come greenwashing e obsolescenza.
Il Parlamento Europeo ha approvato la cosiddetta direttiva antigreenwashing, nell’ambito della quale emergono molte pratiche scorrette utilizzate per comunicare e vendere i prodotti. La direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde impone maggiore chiarezza, soprattutto nelle fasi di comunicazione e vendita. Tra le nuove regole, c’è anche l’obbligo per i brand di fornire tutti gli elementi utili a scegliere un prodotto anche per la sua sostenibilità. Al bando le informazioni fuorvianti, insieme a una stretta sulle certificazioni effettivamente acquisite dai marchi e sul concetto di obsolescenza dei prodotti.
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Si tratta del processo di “invecchiamento precoce” a cui sono sottoposti alcuni prodotti con l’intento di spingere all’acquisto di nuovi modelli. Prodotti dalle performance migliori o che, semplicemente, possano soddisfare un gusto in evoluzione. L’obsolescenza si muove sia sul piano tecnico, che su quello psicologico, nell’intento di indurre a nuovi acquisti sia con motivazioni razionali che con l’emotività. Un concetto che si è sempre adattato in modo spontaneo a beni e servizi legati alle nuove tecnologie, per le quali effettivamente il progredire delle conoscenze porta cambiamenti sensibili.
L’obsolescenza nella moda
Ma cosa accade nella moda? Il settore tessile non è estraneo alle novità tecnologiche, basti pensare agli e-textiles, o a tessuti e materiali per lo sportswear. Ma si tratta pur sempre di nicchie. Ecco, quindi, che l’obsolescenza si ottiene au contraire e si esperisce, dunque, non assistendo all’effettivo progredire della nuova tecnologia che si impone sul mercato. Bensì constatando il logoramento di vestiti e accessori acquistati. Infatti, forse può non essere così immediato pensare che i capi (specialmente quelli di fast fashion) hanno insito un doppio livello di obsolescenza. Da una parte, quello – appunto – tecnico, dato dal deterioramento dei tessuti di scarsissima qualità confezionati con altrettanto scadenti rifiniture. Dall’altro, quello emotivo e psicologico che fa leva sull’essenza stessa del fashion system: essere di moda.
L’essenza del fast fashion
Se l’industria tessile producesse
vestiti in grado di durare e soddisfare le esigenze primarie come
coprirsi, allora esaurirebbe in breve tempo il suo carburante. A pensare di
gettare benzina sul fuoco, invece, ha provveduto proprio il fast fashion che, con i suoi ritmi
sempre più incalzanti, impone il rinnovamento
radicale dell’armadio a ogni stagione. Se la quantità di capi prodotti deve trovare una
legittimazione, allora è bene esasperare i due aspetti dell’obsolescenza. Riducendone drasticamente
la durevolezza e la riparabilità, quindi, ricorrendo a tessuti di sempre minore qualità. E
connotando le tendenze di stile in
modo da rendere i capi difficilmente riutilizzabili nelle stagioni successive.
Arginare questo sistema incontrollato impone dei radicali cambiamenti sul fronte dei produttori, dei consumatori e, non ultimo, sul pianolegislativo. Poche settimane fa è stata approvata una nuova direttiva dell’Unione Europea che – stando alle parole di Biljana Borzan, deputata e relatrice all’Europarlamento – antepone «i cittadini al profitto». Nuove regole per arginare il greenwashing, la pubblicità ingannevole e le pratiche tendenziose che vanno a scapito di consumatori e ambiente.
Le novità della normativa
La normativa vieta l’autoattribuzione, da parte dei brand, di etichette di sostenibilità e all’utilizzo di green claim ingannevoli, tra cui quelli relativi a traguardi futuri. Niente più “zero emissioni entro 3 anni” e slogan sulla falsariga, ma solo informazioni verificabili e relative a risultati effettivamente raggiunti. Nelle introduzioni per i produttori, inoltre, compare l’obbligo di chiarezza sulla durevolezza del prodotto e sulla sua riparabilità.
Contro il greenwashing della moda
La normativa impone anche l’abolizione di azioni compensatorie delle emissioni di CO2 a fini pubblicitari, di largo utilizzo negli ultimi anni. In altre parole, non sarà più consentito promuovere un brand o un capo per contrastare il cui impatto ambientale sono stati – ad esempio – piantati degli alberi. Queste sono alcune delle misure che caratterizzano la nuova normativa Ue e investono investe simultaneamente numerosi ambiti e settori merceologici. E impongono trasversalmente nuove modalità di produzione, commercializzazione e comunicazione. Non fa eccezione, tra questi, il settore tessile che, soprattutto in relazione al fenomeno del fast fashion, viene interessato in modo significativo. E, specialmente nel settore abbigliamento, sembrano procedere di pari passo con una sensibilità sempre più radicata e condivisa. Che, del resto, è anche alla base di alcuni provvedimenti nazionali, come la legge attualmente al vaglio del senato francese.
Immagine di copertina: Antoine Schibler, Unsplash
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