Partire dalle materie prime per una moda davvero sostenibile
Sostenibilità

Partire dalle materie prime per una moda davvero sostenibile

Cosa succede se si producono vestiti in quantità di molto eccedenti alla richiesta del mercato e se lo si fa a partire da tessuti altamente impattanti?

In quale punto della filiera la moda diventa scarsamente sostenibile per l’ambiente? Con buona approssimazione, si potrebbe dire molto presto: sicuramente, già dall’approvvigionamento dei filati per i tessuti.

Nel 2022, il report di Textile Exchange metteva a fuoco in modo molto nitido le tendenze di moda e la loro incidenza sui filati. Un mercato globale che ha quasi raddoppiato la produzione di fibre dal 2000 alla pandemia, passando da 58 a 113 milioni di tonnellate. Ma è necessario soffermarsi anche su altri dati collaterali che completano la visione. Come il fatto che, sebbene negli ultimi anni l’utilizzo di fibre riciclate sia leggermente aumentato, nel 2021 era comunque al di sotto dell’1%.

Il report della Commissione Europea

A ciò bisogna aggiungere quanto osservato dalla Commissione Europea alla fine dello scorso anno. La disparità tra immissione dei tessili sul mercato e loro utilizzo ha inevitabilmente inciso anche sulla durata del ciclo di vita del prodotto. Secondo quanto rilevato dall’UE, ogni cittadino consuma 26 kg di tessili ogni anno e ne smaltisce circa 11. Uno smaltimento che, nella quasi totalità dei casi, comporta il conferimento dei capi di abbigliamento in discarica o il loro incenerimento. Dati che preoccupano per l’immissione irresponsabile dei prodotti sul mercato da parte dei brand e per il loro consumo incontrollato da parte degli acquirenti. Ma questi numeri indicano chiaramente una progressiva sofferenza sulle modalità di approvvigionamento di fibre e filati. Le risorse tradizionali, per come siamo abituati a intenderle, potrebbero essere messe a dura prova da un utilizzo smodato e una richiesta sempre maggiore da parte del mercato. Così come, contestualmente, un mercato votato all’iperproduzione come quello del fast fashion non sarebbe neppure interessato a volgere lo sguardo verso filati di qualità.


La necessità di investimenti mirati

Pertanto, ci si troverebbe (anzi, ci si troverà) davanti a una quantità di rifiuti tessili in costante e deciso aumento. Rifiuti di scarsissima qualità, per giunta. Perciò, quello delle materie prime è un campo che richiede particolare ricerca e investimenti. Incoraggiare la commercializzazione di fibre riciclate significa, infatti, investire sulla filiera e arginare le tonnellate di rifiuti, trasformandoli in una nuova fibra. Risulta emblematico, ad esempio, soppesare i numeri del report 2022 di Textile Exchange: dal 2020 al 2021 la produzione di poliestere è passata da 57 a 61 milioni di tonnellate. Sempre nello stesso anno, l’incremento della stessa fibra riciclata è stato dello 0.1%. Significativo e paradossale, poi, considerare come proprio il poliestere, nonostante le esigue percentuali, rappresenti la fetta più grossa dei materiali riciclati destinati al tessile. Gli altri, dalla lana al cotone, passando per l’elastane, restano globalmente attorno all’1% e comunque non superano mai il 6%. Tutto ciò nonostante la quasi totalità del poliestere riciclato provenga non da una prima fibra tessile, ma da bottiglie di plastica.


Ricerca e innovazione

Uno scenario che viene confermato da quelle realtà aziendali virtuose così come dai gruppi di ricerca che provano a offrire un’alternativa al fast fashion. E, per farlo, hanno provato a ripensare le risorse in modo più sostenibile. Ma in molti casi, i filati che rispondono a requisiti di qualità ed effettiva sostenibilità ambientale e umana vengono scartati dai produttori. I quali, pur lavorando su grandi quantità o con brand e case di moda rinomate, vedrebbero una riduzione del margine di profitto. Perciò viene da pensare che la sostenibilità – una sostenibilità vera e radicale – sia fuori dai range del mercato. O almeno, non possa impiantarsi sul sistema-moda vigente se non a patto, come si è visto, di venire sacrificata o annacquata. I requisiti da soddisfare e intrecciare sono numerosissimi: si parte, infatti, dalla ricerca di una fibra, prima, e di un filato, poi, che non impatti sull’ambiente né con la sua coltura (o allevamento, o altre modalità di produzione), né con l’articolata filiera di trasformazione. Una voce in cui, si è visto spesso, incide in massima parte il consumo di acqua, ad esempio.


L’impatto del design del prodotto

I punti di incongruenza nel valutare questo panorama emergono all’analisi di ogni anello della catena. Si potrebbe riciclare di più e meglio. Ma, andando ancora più a monte, si potrebbe produrre meno e meglio, garantendo una più ampia commercializzazione dei capi monomateriali, ad esempio. E poi, se si utilizzassero fibre capaci di non vincolare il processo di riciclo e far durare di più i capi, allora sì che l’abbigliamento sarebbe sostenibile. La difficoltà di approvvigionamento delle fibre tessili sta diventando l’ennesimo problema collegato alla moda. Probabilmente sarà più probabile vedere questo dato peggiorare e questo problema esasperarsi, piuttosto che assistere al concreto cambiamento di un settore. Non sarebbe forse, finalmente, il caso di iniziare a vestirsi con responsabilità, oltre che per necessità o piacere?

 


Immagine di copertina: Terri Bleeker, Unsplash

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