Il punto sull’iniziativa istituita alla Cop28 con il professore Stefano Zamagni: «Utile ma per invertire la rotta urge un radicale cambio degli stili di vita».
Entro il 2050 la crisi climatica e i disastri naturali provocati dal riscaldamento globale potrebbero provocare la morte di 14,5 milioni di persone e perdite economiche per 12.500 miliardi di dollari, nonché costi aggiuntivi per il sistema sanitario superiori al miliardo di dollari. È quanto emerge da un’analisi del World Economic Forum realizzata insieme alla società di consulenza Oliver Wyman.
A leggere questi numeri risulta evidente come il fondo Loss and Damage, destinato a compensare i Paesi in via di sviluppo più vulnerabili agli effetti del climate change e diventato finalmente realtà lo scorso dicembre in occasione della Cop28 di Dubai, risulti uno strumento ancora poco incisivo per come è formulato oggi.
Lo scopo del fondo, un progetto di cui si parla dal 2007 ma che solo oggi è diventato operativo, è quello di fornire finanziamenti ai Paesi più colpiti da inondazioni, siccità, ondate di calore, tempeste tropicali, incendi e innalzamento del livello del mare per dotarsi di quegli strumenti necessari per ridurre i danni provocati dal cambiamento del clima: dagli strumenti per la raccolta di informazioni e dati sul clima a quelle misure atte a provvedere alla ricostruzione e a una ripresa economica resiliente. Il fondo sarà governato da un board dedicato, responsabile della definizione della direzione strategica e delle modalità di governance e operative, così come del suo programma di lavoro, comprese le relative decisioni di finanziamento. L’accordo prevede che il board sia composto da 26 membri, in modo da garantire una rappresentanza equa ed equilibrata di tutte le parti all’interno di un sistema di governance trasparente.
La dimensione finanziaria del fondo
Considerato uno strumento essenziale per realizzare la giustizia climatica, il fondo necessita di risorse finanziarie ingenti, considerando i danni provocati ogni anno dai fenomeni legati alla crisi climatica, il cui impatto oltretutto è destinato ad aumentare nei prossimi decenni.
Il fondo sarà finanziato secondo la libera scelta di ogni Stato. Ad oggi sembra che i Paesi più ricchi del pianeta abbiano stanziato poco più di 700 milioni di dollari, risorse però che equivalgono a meno dello 0,2% delle perdite economiche e non economiche irreversibili che i Paesi in via di sviluppo hanno subito a causa del riscaldamento globale. Emirati Arabi Uniti e Germania si sono impegnati a finanziare il fondo ciascuno con 100 milioni di dollari, l’Italia con 130 milioni, la Francia con più di 100 milioni, gli Stati Uniti (Paese che emette più gas serra e tra i più importanti produttori di petrolio e gas) hanno garantito solo 17,5 milioni di dollari, il Giappone (la terza economia al mondo dopo Stati Uniti e Cina) 10 milioni di dollari.
Stefano Zamagni: «Stop al neoconsumismo e spazio all’Homo civilis»
«L’idea del fondo Loss and Damage è in sé valida, il problema è che la sua dotazione economica è insufficiente per compensare i danni provocati ogni anno dalle crisi climatiche. Stiamo parlando dunque di un piccolo incentivo, che di certo non è in grado di aiutare i paesi meno dotati di risorse ad immettersi sulla strada della transizione verde», spiega a Nonsoloambiente Stefano Zamagni, Professore ordinario di Economia Politica, Università di Bologna e Adjunct Professor of International Political Economy della Johns Hopkins University. «Oggi finalmente la rilevanza delle tematiche ambientali è universalmente riconosciuta, come dimostra il via libera al fondo. Il problema però è che la sostenibilità verde deve essere associata anche a quelle sociale ed economica, come affermato da Papa Francesco nell’enciclica “Laudato si’” già nel 2015. È un cambiamento innanzitutto culturale senza il quale è impensabile superare il modello neoconsumistico ancora oggi imperante. Si tratta di porre fine al triste fenomeno del “land grabbing” e del “forest grabbing” da parte delle multinazionali occidentali (e cinesi) per le coltivazioni intensive di prodotti da esportare».
Secondo Zamagni, la vera sfida che attende la nostra società è un radicale cambio degli stili di vita, fondato innanzitutto sulla riduzione dei consumi di beni materiali. «Puntare sulla riduzione delle emissioni e sull’economia circolare non basta, la nostra economia deve piuttosto smetterla di guardare solo alla crescita del Pil, un concetto ormai anacronistico, e dare piuttosto il giusto peso ai beni relazionali e ai beni comuni, come la cultura, la cura e l’alterità. L'Homo oeconomicus deve fare un passo indietro e lasciare spazio all’Homo civilis, come il presidente Mattarella ha riconosciuto nel suo intervento del 15 settembre 2023 all’Assemblea generale di Confindustria».
A livello internazionale, è urgente invece la riforma delle grandi istituzioni economiche e finanziarie internazionali, dalla Banca Mondiale al Fondo Monetario, «organizzazioni nate nel dopo guerra, quasi 80 anni fa quindi, che oggi devono necessariamente operare secondo nuove regole». Anche di questo si parlerà in occasione del “Summit del futuro”, la due giorni organizzata dalle Nazioni Unite i prossimi 22 e 23 settembre 2024 proprio con l’obiettivo di rafforzare le strutture della governance globale per affrontare con più consapevolezza le nuove e vecchie sfide dei prossimi anni, e avanzare a passo spedito verso la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. «Un’occasione importante che speriamo il mondo non si lasci scappare», conclude Zamagni. «Perché di tempo ormai non ce ne rimane tanto per invertire la rotta».
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