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Excursus tra le certificazioni tessili per l’abbigliamento: da quelle sulle fibre riciclate a quelle che tutelano le condizioni di vita degli animali.
In un mondo della moda caratterizzato dal fast fashion e dalle sue storture, le certificazioni tessili sono uno strumento molto utile per orientarsi. Qualità e provenienza dei tessuti, tutela delle piantagioni e dei capi di bestiame, per arrivare ai trattamenti di finissage e alla manodopera. È un territorio molto ampio, quello su cui si muovono le certificazioni tessili.
Il ruolo di Icea
In questo ambito opera anche Icea, consorzio bolognese senza fini di lucro che aggrega realtà sul territorio nazionale, tra enti, imprese e associazioni. Le certificazioni Icea abbracciano un range molto vasto di settori merceologici, materiali e filiere produttive, tra food e non food. E, tra queste ultime, figura anche il tessile. Riconosciuto a livello internazionale anche dal circuito Textile Exchange, il consorzio Icea offre svariate nicchie di certificazione per il tessile. Una specificità che individua ed esalta il valore di ogni singola sceltaetica, anche delle meno comuni.
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Clicca quiConsapevolezza e benessere
Si parte dai due standard GOTS e OCS – rispettivamente Global Organic Textile Standard e Organic Content Standard – che garantiscono la presenza di fibre naturali biologiche. Ci sono poi due certficazioni Icea che riguardano i filati ottenuti da materiali riciclati, e sono Global Recycled Standard (GRS) e Recycled Claim. Nell’obiettivo Icea di classificare le fibre in base all’attendibilità e alla sicurezza della loro provenienza, un ruolo rilevante assumono i filati di origine animale. RAF è l’acronimo per Responsible Animal Fiber, certificazione che ha sostituito, racchiudendole, le due relative alla produzione di lana e agli allevamenti di alpaca. Ad oggi è una delle certificazioni fondamentali per chi si approccia a una produzione consapevole basata su filati contenenti fibre animali.
Un circolo virtuoso
Ci sono poi gli standard spiccatamente di impronta animalista, come RDS: acronimo che sta per Responsible Down Standard che riguarda i capi che contengono imbottiture in piuma. Compito di questa sottocategoria è garantire il benessere dell’animale nella produzione dell’indumento. O, ancora, NPF, sigla di Nativa Precious Fiber che interessa la classificazione dei tessili contenenti fibre di lana. Sulla falsariga delle due certificazioni precedenti è anche SFA (Sustainable Fibre Alliance), standard innovativo perché guarda al benessere nell’industria tessile. Una overview completa e organica che analizza i numerosi step della produzione di cashmere e mira all’adozione di pratiche sostenibili su un triplice fronte. In primis, una dimensione che tuteli l’animale, poi una che abbia a cuore le buone pratiche per l’ambiente. E, last but not least, un’attenzione alle risorse umane impiegate e alle condizioni dei lavoratori.
Sempre più spesso, infatti, etica del lavoro e ambientale vanno a braccetto, per consentire la produzione di capi che siano sostenibili per il pianeta. Ma ridurre le emissioni di CO2 del ciclo produttivo non basta: le certificazioni Icea, al pari di altri standard, iniziative e realtà mirano a una visione coesa. E guardare alla moda con maggiore consapevolezza significa anche scegliere dei parametri che possano rappresentare un’acquisizione di valore. Dei paletti rigorosi che indichino un’alternativa al fast fashion e la strada verso un più radicato senso di responsabilità. Che sia – lo si è detto spesso – biiettivo, tanto da parte di chi produce, quanto da parte di chi acquista. Un modo, inoltre, per dire che non c’è sfruttamento cosciente delle materie prime e dei cicli produttivi se non accompagnato da standard umani adeguati. Per prendere coscienza sul ruolo non egemonico di un fattore rispetto agli altri, ma per considerare tutti gli elementi come olistici nella catena produttiva.
Immagine di copertina: 🇸🇮 Janko Ferlič, Unsplash
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