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Immagine: Jezael Melgoza, Unsplash
Disincentivare lo shopping compulsivo veicolato dagli influencer è l’obiettivo di un trend social che sta prendendo piede e che sembra avere a cuore l’ambiente.
Il “deinfluencing” è l’inizio del declino del sistema social? Forse sì, forse no, ma è
necessario fare un passo indietro per fare il punto della situazione. E,
dunque, partire dall’antagonista di cui il deinfluencing pare voglia
liberarsi.
C’erano una volta gli influencer
Pensare agli influencer fa venire immediatamente in mente centinaia di migliaia
di follower e partnership
pubblicitarie. Questi “consigli per gli acquisti” in chiave social sono da diverso tempo sotto i
riflettori per l’induzione a spese
incontrollate e, soprattutto, superflue. Lifestyle influencer che sfoggiano outfit esclusivi, pensati per
inaugurazioni ed eventi. Oppure video social in cui l’influencer di turno
produce contenuti comici interpretando personaggi e mettendo in scena
circostanze surreali. Tutte situazioni accomunate da un consumo di abiti – e, più
in generale, di prodotti – nettamente superiore all’effettiva necessità. Contenuti social in cui non ci si può
esimere da una partnership:
esplicitata o, come più spesso accade, latente, se non addirittura occulta.
Dietro ci sono, non di rado, marchi di abbigliamento
e cosmesi che promuovono i propri
prodotti. Pubblicità che appaiono affidabili perché somministrate agli utenti
sotto forma di consiglio, per un sistema che, se da una parte appare solido e
altamente redditizio, dall’altra inizia a scricchiolare.
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Da diversi mesi, infatti, è iniziata la cosiddetta campagna di deinfluencing. Portata avanti tanto da utenti con una spiccata sensibilità ambientale quanto da follower delusi. Il fenomeno appare al momento trasversale e magmatico, poiché si scontra con uno status quo che molti percepiscono come infallibile e imponente. In sostanza, vengono messe in discussione, spesso per ragioni etiche, sovraesposizione social e attitudine all’iper-consumismo. E non mancano le ragioni legate all’ambiente. Ciò che si pone all’attenzione è soprattutto il fatto di indurre decine di migliaia di persone a comprare prodotti dalla dubbia utilità.
La strategia dei deinfluencer consiste soprattutto nel mostrare un capo o un prodotto beauty (spesso naturale) dai molteplici utilizzi. Lo scopo è
quello di spegnere l’istinto di shopping
compulsivo che, smaterializzato e agevolato anche dai canali e-commerce,
prende molti utenti davanti a contenuti promozionali. Prodotti che, nemmeno a
dirlo, vengono spesso immessi sul mercato da aziende che operano nel totale
disinteresse delle norme ambientali.
Produzioni a ritmi frenetici, carbon
footprint elevatissimo,
mancanza delle basilari tutele per lavoratori e lavoratrici sono solo alcuni
degli elementi a corredo.
Cos’è #NoNewClothes
Nel filone di deinfluencing trova spazio anche l’iniziativa #NoNewClothes,
per provare ad arginare il flusso incontrollato di tessili di scarsa qualità. Nata come hashtag
sui social nelle scorse settimane, la challenge
mira a sensibilizzare sull’acquisto di capi.
In un intervallo variabile, gli utenti – supportati anche da piccoli produttori e associazioni – rinunciano agli
acquisti. O meglio, rinunciano a compare capi
di abbigliamento nuovi, prediligendo second
hand o circuiti virtuosi afferenti all’ambito dell’economia circolare. #NoNewClothes
potrebbe avere l’ambizione e la forza di trasformarsi in movimento, per
disincentivare la “scorpacciata”
stagionale di fast fashion.
Un’iniziativa portata avanti sui principi del risparmio economico, dell’ottimizzazione
e dell’attribuzione di maggiore valore ai capi scelti.
Il rovescio della medaglia
Premesse encomiabili che impongono una riflessione articolata. A esse, infatti, è necessario che segua una presa di posizione e di coscienza da parte del consumatore. Il rischio? Farsi trascinare in un fenomeno la cui deriva potrebbe essere dannosa al pari dell’influencing, ma ben più difficile da smascherare poiché veicolata da principi condivisibili.
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