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Immagine: LauraPratt, Unsplash
A dieci anni dalla strage di lavoratori tessili in Bangladesh, un
report di Greenpeace Germania fa il punto sulla sostenibilità nell’industria tessile.
E conferma l’abitudine delle aziende a comunicare (male) il green, con termini
impropri ed elementi parziali.
Parlare di greenwashing nel mondo della moda, purtroppo, significa parlare di
una consuetudine comune e nociva. Un fenomeno che consiste nel dare una
parvenza di eco-compatibilità e sostenibilità a processi produttivi e
distributivi che, in realtà, ne hanno ben poca. Equivale, in sostanza, a
mettere in atto una strategia esclusivamente orientata all’aumento delle vendite palesando un orientamento green
dell’azienda in questione. I consumatori tendono a prediligere un prodotto o un
brand che si mostra in linea con le tematiche
ambientali. E quindi, la sostenibilità (o presunta tale) di un prodotto ne
decreta il suo maggiore successo di mercato.
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La crescita dell’attenzione nei
confronti del tema porta, fortunatamente, a intraprendere azioni che
“sbugiardano” con più facilità operazioni di greenwashing. È il caso del report
pubblicato da Greenpeace Germania
dal titolo Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system. Il documento è stato
pubblicato lo scorso aprile con l’obiettivo di fare il punto sul fast fashion a un decennio dalla strage
avvenuta in Bangladesh.
Il fashion hub di Rana
Plaza, al cui interno venivano prodotti capi per numerose multinazionali occidentali, crollò il 24 aprile 2013, facendo 1134 vittime. Lavoratori e lavoratrici tessili persero la vita – fuor di metafora
– sotto il peso del fast fashion.
Comunicare il green: i problemi più diffusi
Greenpeace analizza le strategie dei brand per dissimulare una
condotta non troppo green, nonché
l’attendibilità di parole come moda
circolare o sostenibilità,
utilizzate frequentemente. Delle 29 campagne analizzate, solo due hanno
ottenuto riscontro positivo: COOP
“Naturaline” e Vaude “Green Shape”.
Tra i marchi bocciati ci sono moltissimi nomi che popolano le vetrine di tutto
il mondo, ancora responsabili di quantitativi e modalità non sostenibili. Produzione di CO2, ricorso a derivati del petrolio, assenza di tracciabilità nelle filiere sono gli elementi più comuni e
ricorrenti.
Altra pratica tanto diffusa quanto dannosa è
quella dell’autoattribuzione di
definizioni di eco-sostenibilità. Nella quasi totalità dei casi, infatti, i
brand fanno ricorso alle “paroline magiche” del greenwashing per mera pubblicità. Quei processi bio e circolari menzionati nelle campagne pubblicitarie non sono
suffragati da sistemi di verifica e certificazioni riconosciute: in sostanza, è
un green home-made.
Un riciclo “di facciata”
In altri casi, poi, una singola
azione positiva viene esposta in modo parziale e ingigantita, comunicata solo
per i suoi aspetti benefici. È il caso delle campagne pubblicitarie che insistono
sull’utilizzo di materiali riciclati
nella produzione di abiti. Quello che non viene esplicitato, però, è che spesso
il poliestere in questione viene
recuperato da altri settori industriali. In altre parole, l’annoso problema
dello smaltimento
dei rifiuti tessili che interessa le spiagge di numerosi Paesi, non viene
minimamente ridotto o alleviato. Omettere quel “rovescio della medaglia” che
renderebbe l’informazione completa ed equilibrata equivale, quindi, a
diffondere una notizia tendenziosa.
Fumo negli occhi di consumatori distratti
Globalmente, quello
che emerge dal report è uno scenario abbastanza confuso, in cui la leggerezza di molti consumatori risulta funzionale alle strategie di marketing delle aziende. E
perciò ecco che una narrazione di sostenibilità
non suffragata da certificazioni di terze parti può non essere percepita come
un problema. Atteggiamento molto diffuso è anche concentrarsi su un solo
elemento e insistere su quello, ignorando il proverbiale “elefante nella
stanza”. Se la produzione impiega meno acqua,
ad esempio, a emergere sarà questo parametro… e pazienza se farà da contraltare
una maggiore produzione di rifiuti
solidi.
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