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In principio era il fascino rétro per i decenni passati ma, con il passare del tempo, il mercato del riuso ha intercettato nuove sensibilità, diventando più etico e green. Senza dimenticare il “volto umano” delle nuove app.
Dal vintage in stile “baule della nonna” allo storytelling del riuso. Il second-hand non è una moda, ma un modo di intendere la moda.
In un’epoca apparentemente dominata dal fast fashion, il second-hand emerge e si impone. Nato per una fascinazione nostalgica, il mercato vintage ha contribuito a creare un’estetica e un immaginario potentissimi. Quello degli albori aveva una regola: era vintage tutto ciò che avesse almeno vent’anni perciò, in sostanza, si trattava soprattutto di recuperare lo stile di un passato relativamente recente. Oggi non è più l’estetica a veicolare il concetto, ma l’accento cade sulla nuova vita degli oggetti. Perciò, l’effetto ricercato non è quello di un prodotto che sembri pescato dal baule della nonna ma, anzi, il ciclo del second-hand è molto più immediato, contraendo anche i tempi di inutilizzo della merce. Chi acquista difficilmente cerca cimeli di epoche passate, ma piuttosto una soluzione di vestiario o arredamento pre-owned (cioè già posseduta da altri) che sia utile e subito fruibile in pochi tap da smartphone.
I benefici del second-hand
Questo passare “di mano in mano” guarda più al buono che al bello e pone l’attenzione principalmente su una visione più green degli acquisti. I benefici non si esauriscono qui: basti pensare a una filiera produttiva più clemente, una distribuzione meno invasiva e, in sostanza, un sistema meno dannoso per il pianeta e i lavoratori. Non è un caso, dunque, che il second-hand sia più un modo di intendere la moda, che una moda.
Il supporto della tecnologia e dei new media
Negli ultimi dieci anni, portali e app come Depop prima, Vestiarie Collective, Wallapop e Vinted poi, hanno fatto di questo concetto il loro core business. Un fenomeno sempre più presente al punto che, in tempi più recenti, anche colossi come Zalando e Subito hanno inaugurato esperienze di e-shopping o peer-to-peer dedicate al riuso. Stando a una ricerca BVA Doxa, il second-hand nel 2020 ha generato 23 miliardi di euro, di cui ben il 46% (dunque, quasi la metà) derivanti dalle vendite online. Come intuibile, gli utenti sono in gran parte appartenenti alla Gen Z, ma anche i millennials danno il loro consistente contributo, specialmente grazie alle app che agevolano le transazioni. Non solo: gli under 40 prediligono questo modello di economia circolare perché rispetta l’ambiente e conferisce nuova dignità a oggetti che altrimenti finirebbero nella spazzatura. Senza trascurare che, in questo sistema, venditore e acquirente sono entrambi utenti, ciascuno con le rispettive vicende personali. E acquistare un capo di abbigliamento o un accessorio è un po’ come, insieme, ereditarne anche la storia.
Un nuovo modello virtuoso
Le buone pratiche sono oggi parte integrante di un nuovo modo virtuoso di intendere la moda: abitudini che sottolineano la sensibilità green, l’attenzione ai sistemi di lavorazione e distribuzione, alle condizioni lavorative. In sostanza, ridisegnano i confini del mercato dell’usato, restituendo a un commercio sterile il suo “volto umano”. E forse il second-hand, grazie alle nuove tecnologie e alla fruizione quotidiana, ha centrato un duplice obiettivo: da una parte, preservare dallo sfruttamento le risorse naturali e umane, dall’altro, saper individuare gli utenti come persone, prima ancora che come consumatori.
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