È online il report 2022 redatto da Fashion Revolution, il movimento no-profit che si batte per una moda più giusta e limpida. Per scoprire quali aziende (e quali no) condividono informazioni sulla propria filiera, tra rispetto per l’ambiente e per le risorse umane.
Alla scoperta del Fashion Transparency Index 2022, la guida online che fotografa le aziende di moda più influenti in un mondo in evoluzione. Il Fashion Transparency Index è uno strumento che dal 2014 aiuta a comprendere meglio il mercato della moda. In che modo? Individua i 250 brand più influenti e con il maggiore fatturato e sottopone loro un questionario. Si ottiene, quindi, una raccolta di dati forniti all’ente organizzatore dalle stesse aziende. La richiesta è quella di catalogare le informazioni su produzione e commercializzazione in modo limpido, seguendo delle linee guida che evitino confusione. Il report di analisi redatto dall’organizzazione Fashion Revolution assegna fino a un massimo di 250 punti, poi convertiti in percentuale, che individuano il livello di trasparenza di un brand. Questo avviene studiando e incrociando cinque criteri, ciascuno con un peso specifico diverso. Si parte dal 13.2% delle politiche in fatto di trattamento del personale, per poi valutare la governance (4.4%), che esplora gli aspetti legati alle politiche di miglioramento apportate dall’azienda e il loro riscontro effettivo sulla filiera produttiva. C’è poi la tracciabilità (29.2%) e la categoria denominata Know, Show & Fix (20%), un focus, cioè, sui diritti dei lavoratori e la gestione delle criticità all’interno dell’azienda. Infine, la macro-sezione che incide maggiormente nella valutazione (33.2%) è quella delle Spotlight issues, gli argomenti di maggiore interesse pubblico e di grande urgenza, sia sul fronte sociale che su quello ambientale.
Fashion Transparency Index 2022, i numeri
Ma cosa dicono i numeri del Fashion Transparency Index? Innanzitutto, emerge l’assenza di marchi “promossi” al 100%. Le tre aziende con il rating di limpidezza più alto (71-80%) sono tre: OVS, Kmart Australia e Target Australia. Tuttavia, al calare delle percentuali di trasparenza, la lista si allunga, per raggiungere il numero massimo di brand nel range 11-20%. Tra i marchi che registrano una sufficienza piena si collocano Timberland, H&M, Vans, The North Face e United Colors of Benetton. Mentre le prime case di moda prêt-à-porter fanno capolino nella fascia di trasparenza che va dal 51 al 60%: qui trovano posto Gucci, Tommy Hilfiger, Fendi e Calvin Klein. Registrano invece il massimo incremento di punti percentuale Calzedonia, Intimissimi e Tezenis, che nell’ultimo anno hanno lavorato alacremente per rendere più limpide le politiche aziendali. Non allieta, invece, scoprire che un’azienda su tre rivela disparità salariali tra sessi, dimostrando che il gender pay gap è una realtà tristemente tangibile. Bollino nero per il colosso del fast fashion online Shein che, insieme a griffe del calibro di Max Mara, Tom Ford e DKNY, non arriva al 5%.
Una miniera di informazioni per i consumatori
Il report si limita a fotografare l’esistente e non intende emettere sentenze. Tuttavia, sebbene il Fashion Transparency Index sia uno strumento imparziale che non si pone come obiettivo quello di screditare un brand o esaltarne un altro, si rivela una miniera di informazioni a disposizione degli acquirenti. Le cifre non sono mai sterili, ma diventano “numeri parlanti” che permettono di analizzare criticamente. I dati riportati, infatti, possono rappresentare la cartina al tornasole di un’attitudine limpida dei brand, nonché uno strumento supplementare e molto utile per permettere ai consumatori di confrontare, valutare ed esercitare il diritto di scelta. E non è difficile immaginare come l’acquirente possa utilizzare questi criteri per individuare i marchi più conformi non solo per stile e gusto estetico, ma anche per trasparenza.
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