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I criteri di sostenibilità, regolati in UE e negli USA, oggetto dei primi scandali di greenwashing da parte di alcuni big della finanza. Gli analisti chiedono nuove norme a garanzia.
I criteri ESG (Environmental, Sustainability, Governance), da alcuni anni a questa parte oggetto di analisi approfondite e oggi all’apice della loro diffusione (al punto da meritarsi un indice dedicato alla borsa di Milano), con un trend costante di crescita tra i portfolio managers di tutto il mondo, sono ultimamente sotto l’occhio delle agenzie di controllo delle borse e delle autorità giudiziarie di vari paesi. Dal 2018 ad oggi le tematiche legate ai criteri di valutazione ambientale, di sostenibilità e di governance (ESG) hanno visto una crescita di quasi il 30% all’interno di bilanci societari, business plan e prospetti di investimento da parte delle maggiori società quotate in borsa globalmente.
Le analisi ESG, che possono variare grandemente tra diversi settori aziendali, hanno ottenuto dal 2020 uno standard comune dall’Unione Europea (CDR 2020/1816), ma ai singoli livelli nazionali (ed al di fuori dell’UE) le linee guida per la definizione di standard ESG hanno ancora diverse lacune e discrepanze, lasciando aperto il dibattito su quanto efficienti siano le misure intraprese per evitare episodi di greenwashing e di vera e propria frode a danni di consumatori ed investitori.
Mentre da più parti si chiede alla Commissione UE e alla SEC americana di intervenire in maniera più vincolante sulla definizione degli standard ESG per le società quotate in borsa, a maggio la commissione di vigilanza sulla borsa Statunitense ha commutato una multa da 1.5 miliardi a BNY Mellon, società di investimenti erede della Bank of New York, colpevole di aver dichiarato che tutti i fondi in propria gestione fossero sottoposti ad una “attenta revisione dei criteri ESG”, fatto dichiarato dall’organismo di controllo americano “ingannevole” e in alcuni casi falso.
È di alcuni giorni fa, invece, la notizia dell’avvio delle indagini su Deutsche Bank e sulla sua società di investimento, DWS, accusata dalle autorità tedesche di “greenwashing”. È questo, tra l’altro, il primo caso in Europa in cui si fa apertamente menzione del termine inglese, entrato nell’uso comune per definire le false affermazioni in ambito ambientale e di sostenibilità, volte a presentare un prodotto in maniera più favorevole all’opinione dei consumatori. Secondo le autorità di Berlino, la Deutsche Bank, principale gruppo bancario del paese, ha mentito affermando che la metà dei fondi investiti da DWS, di cui la banca è il principale azionista, fossero investiti secondo criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance. Lo scandalo ha suscitato parecchio scalpore in Germania, dove la polizia federale ha perquisito senza preavviso le sedi delle due compagnie finanziarie, e ha portato alle dimissioni del CEO di DWS, Wöhrmann.
Entrambe le notizie hanno suscitato aspre reazioni da parte dei maggiori analisti finanziari nel settore sostenibilità, e, se da una parte si nota come gli standard vigenti siano implementati con successo e monitorati scrupolosamente, come le due notizie confermano, dall’altra sembra chiaro che una nuova serie di criteri, vincolanti e di maggior chiarezza, può essere utile non solo ai consumatori, per decidere più consapevolmente quali compagnie e quali prodotti scegliere, ma alle stesse aziende e istituzioni finanziarie. Si nota infatti come norme più chiare consentano alle imprese di comunicare con maggiore serietà ed efficienza il proprio profilo di sostenibilità, e distinguersi maggiormente, in quanto virtuose, rispetto ad altre aziende che, con l’attuale quadro normativo, possono continuare a far passare per sostenibile la loro attuale politica aziendale, forti delle lacune non contemplate dalle disposizioni attuali.
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