Uno studio ha messo a confronto plastica e bioplastiche, osservandone per sei mesi la degradazione in condizioni che simulavano l'ambiente naturale. Nessuno dei polimeri analizzati ha mostrato una degradazione significativa.
Bioplastiche vs plastiche. Un recente studio, a cura del Consiglio nazionale delle ricerche, non consente all'ago della bilancia della sostenibilità ambientale di pendere con decisione - come ci si sarebbe potuti attendere - verso le prime, almeno da punto di vista dei tempi di degradazione. Secondo l'analisi, infatti, le bioplastiche disperse nell'ambiente, ad esempio in mare o sulla spiaggia, hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio.
Lo studio
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Polymers dal e ha visto la collaborazione fra il Consiglio nazionale delle ricerche - coinvolto con l’Istituto dei processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) e l’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar) - l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e il Distretto ligure per le tecnologie marine (Dltm), con il supporto di Polizia di Stato-Centro Nautico e Sommozzatori La Spezia (CNeS). I ricercatori hanno agito mettendo a confronto due polimeri tra i più impiegati negli oggetti di plastica (HDPE e PP) con due polimeri di plastica biodegradabile (PLA e PBAT), verificandone il grado di invecchiamento e degradazione, rispettivamente in acqua di mare e sabbia. L'esperimento è stato portato a termine grazie a una piattaforma di monitoraggio ambientale, realizzata nell’ambito del progetto Laboratorio Mare del Distretto ligure per le tecnologie marine, dove sono state collocate particolari gabbie, progettate per contenere i campioni di plastica. E' stata, inoltre, predisposta una vasca contenente sabbia, esposta agli agenti atmosferici per simulare la superficie di una spiaggia.
I risultati
Nell’arco di sei mesi di osservazione, né i polimeri tradizionali né quelli bio hanno mostrato una degradazione significativa, sia in acqua che sulla sabbia. L’osservazione dei campioni - unitamente ad analisi chimiche, spettroscopiche e termiche - dimostra che in natura le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto più lunghi rispetto a quelli che si verificano in condizioni di compostaggio industriale.
Gli avvertimenti dei ricercatori
“Data l’altissima diffusione di questi materiali, è importante essere consapevoli dei rischi ambientali che l’utilizzo della bioplastica pone, se dispersa o non opportunamente conferita per lo smaltimento: è necessario informare correttamente”, ha dichiarato ad ANSA la ricercatrice Silvia Merlino del Cnr-Ismar di Lerici (La Spezia), coordinatrice del progetto.
"Questo studio mette in luce l’importanza di una corretta informazione riguardo alla plastica biodegradabile” ha aggiunto Marina Locritani, ricercatrice dell’Ingv e co-coordinatrice dello studio, “soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta in vigore in Italia dal gennaio 2021 in attuazione della direttiva europea ‘Single use plastic’, che ha portato alla progressiva commercializzazione di prodotti monouso in plastica biodegradabile, come i polimeri presi in esame”.
Sulla base dell'analisi, dunque, gli avvertimenti degli esperti convergono in una direzione: mettere in guardia sulla possibilità di mitigare il problema ambientale generato da intere categorie rifiuti, semplicemente sostituendo materiali esistenti con altri, presumibilmente meno impattanti. E se le bioplastiche non servono a dare conforto alle nostre coscienze ambientali, resta la strada- la più sicura- di una strategia che metta al centro buone pratiche e riduzione a monte dei rifiuti.
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