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Il vertice internazionale è stato occasione di siglare l’adesione di circa 50 Paesi all’obiettivo di dichiarare il 30% del nostro pianeta ad area protetta entro il 2030, ma – denuncia Survival International – c’è chi sta già pagando un prezzo troppo alto.
Il vertice in cui “i decisori politici e gli attori economici del mondo intero si sono riuniti per intervenire contro la perdita di biodiversità”: così è stato presentato lo scorso 11 gennaio One Planet Summit 2021, il vertice internazionale tenutosi a Parigi e promosso dal Governo Francese in collaborazione con le Nazioni Unite e la Banca Mondiale.
Obiettivo dell’evento, giunto alla sua quarta edizione, è stato quello di coordinare e intensificare gli sforzi di governi, istituzioni finanziarie, ONG e imprese nella tutela globale della biodiversità, coerentemente con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030. Nel corso di questi 4 anni, sono diversi i risultati ottenuti da One Planet Summit, tra i quali il coinvolgimento di 121 Nazioni, la realizzazione di 308 progetti di ricerca e il coinvolgimento di numerosi investitori in iniziative per la transizione verde.
Tra i successi dell’edizione di quest’anno è stata annunciata anche l’adesione dell’Italia e di circa altri 50 Paesi alla “High Ambition Coalition for Nature and People”, con l’obiettivo di trasformare il 30% del nostro pianeta in un’area protetta entro il 2030, per favorire la tutela della biodiversità. Si tratta di un tema cruciale e urgente, tanto che sono molti ormai gli studi che denunciano come ormai sia in corso una sesta estinzione di massa, che sta mettendo a rischio la sopravvivenza dell’uomo e del pianeta stesso.
Eppure, l’obiettivo celebrato come un successo cela delle ombre: Survival International, il movimento mondale per la difesa dei popoli indigeni, denuncia come un modello di conservazione definito “fortezza” di questo tipo metta a rischio la sopravvivenza stessa dei popoli indigeni, ai quali viene impedito di vivere nelle aree sottoposte a conservazione. Proprio gli ultimi “custodi della terra”, denuncia il movimento internazionale, vengono così privati del proprio territorio, della propria casa e dei propri diritti. Eppure, l’80% della biodiversità oggi si trova proprio nelle aree abitate dalle popolazioni indigene, che costituiscono oggi il 5% della popolazione mondiale.
“Il governo italiano e i leader mondiali non capiscono fino a che punto questi progetti siano distruttivi per i popoli indigeni che abitano e gestiscono le cosiddette ‘terre selvagge’ da generazioni; dovrebbero essere loro a guidare la conservazione della natura e invece ne sono le vittime” ha dichiarato il Direttore generale di Survival International, Stephen Corry. “Non si rendono conto di quanto sia arrogante e razzista credere che ‘noi’ troveremo un modo migliore per gestire quei territori unici. L’obiettivo del 30% non concorda nemmeno con la scienza, che ormai nell’ultimo decennio ha dimostrato chiaramente che riconoscere i diritti territoriali dei popoli indigeni è essenziale per la conservazione della biodiversità”.
Una voce che apre una importante riflessione e ci pone ancora una volta di fronte alla complessità del tema della tutela ambientale, e di come il nostro futuro sia inevitabilmente interconnesso a quello del nostro pianeta.
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