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Venerdì 16 febbraio si è conclusa la seconda edizione di Aquafarm, fiera internazionale che riunisce a Pordenone i principali player del settore dell’acquacoltura e dell’industria della pesca, e che rappresenta un punto di riferimento per tutti i professionisti delle vertical farm, delle colture fuori suolo, e delle applicazioni industriali e ambientali delle alghe.
Numerose le aziende che quest'anno ad Aquafarm hanno presentato novità tecnologiche per migliorare l’allevamento di specie ittiche, come per esempio il Rethicus Aquaculture, tecnologia di monitoraggio satellitare per la gestione dei dati derivanti dai siti di acquacoltura. Questo strumento è utile perché fornisce un’analisi dei livelli di clorofilla, della temperatura, della salinità dell’acqua, o dei livelli di ossigeno presenti, fornendo così una stima dei rischi per l’allevamento, utile a quantificare il valore economico delle produzioni.
Le presentazioni delle novità tecnologiche hanno lasciato spazio anche a momenti di dibattito su temi più delicati come la normativa vigente o le certificazioni che molti operatori richiedono per i propri prodotti. Se la sostenibilità di tecniche come l’acquaponica, ossia il sistema che grazie al ciclo dell’acqua, che da scarto (dei pesci) diventa nutrimento per le piante e poi, una volta filtrata da queste ultime, ritorna nelle vasche dei pesci, è ampiamente dimostrata, è altrettanto vero che la sostenibilità di alcuni allevamenti ittici non è cosi scontata. Basti pensare alla cosiddetta “pesca industrializzata”, la cui produzione non è diretta al consumo umano, ma è utilizzata per allevare altre specie animali, andando così ad incidere irrimediabilmente sugli ecosistemi. Inoltre queste risorse considerate “povere”, perché utili al nutrimento di specie più pregiate (che poi andranno ad inserirsi nel ciclo alimentare degli uomini), rappresentano una fonte di sostentamento per la popolazione di molti Paesi. Dunque la necessità di allevare specie pregiate, destinate ad una cerchia ristretta della popolazione mondiale, ha ripercussioni negative sulla catena alimentare di altre persone, specialmente nel Sud-Est Asiatico.
Questa è una delle ragioni per cui la ricerca di prodotti ittici certificati sta crescendo molto negli ultimi anni: rispetto per l’ambiente, e filiera della pesca sostenibile sono tra i criteri a cui il consumatore presta più attenzione. Molti sono gli enti che rilasciano certificazioni per le strutture dell'intero settore, come per esempio l’italiana Friend of the Sea per la pesca sostenibile, o l’ente internazionale Global Aquaculture Alliance (GAA) che ha sviluppato gli standard BAP, un programma il quale valuta la responsabilità sociale e ambientale, il benessere degli animali, la sicurezza e la tracciabilità alimentari. La certificazione BAP consente agli allevamenti di acquacoltura, ai vivai, agli impianti di lavorazione e alle fabbriche di mangimi di assicurare a chiunque sia coinvolto nell'industria, inclusi i consumatori, che i loro prodotti ittici siano allevati e lavorati secondo le migliori pratiche industriali.
Certo nel settore non mancano progetti per ridurre i livelli di inquinamento e rendere il più sostenibile possibile la filiera. Un esempio è il progetto pilota della NovoNutrients, l’azienda americana che sta cercando di produrre in laboratorio una farina proteica utilizzando CO2 e idrogeno. Grazie al riutilizzo delle emissioni inquinanti proveniente da impianti vicini e alle colture microbiche, i tecnici di laboratorio sarebbero in grado di produrre palline di mangimi per pesci da utilizzare come sostitutivo delle “risorse povere”.
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