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Le emissioni di gas serra nell’atmosfera si ripercuotono anche sull’Oceano, dove è in corso un processo di acidificazione che sta distruggendo la fauna marina. È necessario prenderne atto e contribuire a un coinvolgimento collettivo che ne favorisca la mitigazione.
Un terzo delle emissioni di anidride carbonica generate dalle attività antropiche viene assorbito dagli oceani. Sciogliendosi nell’acqua, il diossido di carbonio genera una serie di reazioni chimiche e si trasforma in acido carbonico, abbassando il pH degli oceani e aumentandone l’acidità. Tale cambiamento mette a repentaglio il ciclo vitale di diverse specie, minando l’integrità della catena alimentare e danneggiando l’intero ecosistema.
Il processo in questione è chiamato acidificazione oceanica e sta avvenendo dieci volte più rapidamente di qualsiasi precedente avvenuto in 55 milioni di anni. Entro la fine del Secolo, le acque oceaniche saranno circa il 150% più acide di quelle odierne e il pH raggiungerà i minimi storici da 20 milioni di anni. Le zone più impattate sono quelle dal basso pH naturale e le acque vicine ai poli, dove le minori temperature consentono un maggior assorbimento di anidride carbonica.
Se alcune specie di fauna marina stanno reagendo bene al cambiamento, altre sono a rischio estinzione. Per far fronte a una concentrazione superiore di ioni di idrogeno, infatti, gli organismi marini sono costretti a spendere maggiori energie per regolare la chimica interna alle proprie cellule, privandosi così delle risorse necessarie per altri processi biologici, come crescita e riproduzione. Inoltre, con l’acidificazione, scema la concentrazione di ioni di carbonato, essenziali per la costruzione di scheletri e gusci di molte specie, tra cui granchi, cozze e ostriche, le cui corazze sono destinate a sciogliersi.
A essere colpiti anche i coralli, che non potrebbero più formare la struttura corallina funzionale alla costruzione delle barriere, le quali proteggono e sono essenziali per almeno il 25% della fauna marina oceanica, grazie all’habitat naturale circostante da cui dipendono circa un milione di specie. Se l’acidificazione oceanica non è destinata a far estinguere la vita negli oceani, quindi, porterà tuttavia cambiamenti radicali nell’ecosistema, i cui organismi muteranno e si ridurranno in termini di biodiversità. Il danno non sarà soltanto ambientale, ma andrà a colpire anche l’alimentazione di oltre un bilione di persone oggi basata sulla fauna marina come fonte primaria di proteine.
Secondo Sam Dupont, ricercatore in Eco-Fisiologia dell’Università di Goteborg, “il problema è già presente e il processo di acidificazione è irreversibile”. Non servono altri dati scientifici, ma una mitigazione che agisca su due fronti: “cambiamento dei modelli comportamentali e azione a livello locale”. Per fare ciò, è necessario adottare un approccio comunicativo dal basso verso l’alto, in modo che il problema venga compreso dalla coscienza collettiva.
“Per esempio, in Svezia, dove i gamberetti regnano sovrani tra le tavole – prosegue Dupont - è stato coltivato lo stesso tipo di crostaceo sotto condizionamento dell’acidificazione, e poi fatto assaggiare in entrambe le versioni. C’è stata una reazione. Le persone hanno iniziato a chiedersi cosa si potesse fare per evitare il problema”.
Agire è possibile e doveroso, ma serve coinvolgimento: individuale, raccogliendo dati e riducendo l’impatto personale sulle emissioni, laddove possibile; e collettivo, con azioni mirate che, sia pur avendo un fine globale, agiscano sulle realtà locali, in modo da interessare le comunità riuscendo più facilmente a catalizzarne impegno e motivazioni.
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