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Cos’è la bioeconomia? Secondo la Commissione Europea, un’opportunità irrinunciabile; secondo altri, una teoria economica oggi travisata e piegata alla logica del profitto.
Il 24 marzo, a Napoli, presso La Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, SRM ed Assobiotec hanno presentato il terzo rapporto dedicato alla bioeconomia in Europa. Il capoluogo partenopeo è il luogo ideale per la presentazione del report visto che la Regione Campania è patria di alcune realtà di riferimento nel campo delle biotecnologie.
Al netto di necessarie migliorie, gli speaker presenti hanno speso parole molto favorevoli per questo tipo di imprenditorialità nella quale l’Italia mostra buone attitudini.
Secondo Giulia Gregori, componente del Comitato di Presidenza di Assobiotec e coordinatrice del Gruppo di lavoro sulla Bioeconomia “i dati confermano l’importanza e le potenzialità della bioeconomia italiana. Con 251 miliardi di valore della produzione e 1,65 milioni di occupati siamo il terzo Paese in Europa”.
Anche Stefania Trenti, responsabile Industry Direzione Studi e Ricerche Intesa Sanpaolo, sottolinea il ruolo del nostro Paese nello scacchiere europeo: “la bioeconomia assume un peso rilevante per le regioni meridionali e per tutto il panorama economico nazionale: l’Italia, con un peso pari all’8,1%, è seconda solo alla Spagna, superando la Francia, la Germania e il Regno Unito”.
Ma esattamente, cos’è la bioeconomia? Secondo la Commissione Europea, può essere definita come un sistema produttivo che si basa sull’utilizzazione sostenibile di risorse naturali rinnovabili e sulla loro trasformazione in beni e servizi finali o intermedi.
Può essere adattata a molti settori economici, da quelli più tradizionali a quelli più avanzati tecnologicamente, rappresentando così un modo molto versatile di concepire la produttività. Non solo: proprio per le sue caratteristiche può essere considerata d’aiuto nella risoluzione di alcune delle criticità globali attuali come i cambiamenti climatici, la scarsità di risorse alimentari, l’impatto ambientale dei settori produttivi.
Le fortune recenti di questa disciplina economica cominciano nel febbraio del 2012, quando la Commissione Europea rilascia una comunicazione che ne delinea caratteristiche ed opportunità. In particolare, viene stabilito che “la bioeconomia contribuisce in modo considerevole al conseguimento degli obiettivi contenuti nelle iniziative faro denominate ‘L’Unione dell’innovazione’ e ‘Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse’, che fanno parte della strategia Europa 2020”.
Nel dicembre 2015, la UE ne rafforza ulteriormente l’importanza inserendo tra le aree prioritarie del pacchetto sull’economia circolare anche il settore delle ‘biomasse’ e dei prodotti bioeconomici.
Alla luce delle sfide che il vecchio continente si trova ad affrontare, la Commissione invita allo sviluppo di una bioeconomia coerente: come tutte le grandi opportunità, infatti, sono richiesti importanti cambiamenti ed una forte riconversione degli assetti politici ed economici.
Viene così stilata una strategia in tre punti fondamentali: Investimenti in attività di ricerca, innovazione e competenze; maggiore interazione tra le politiche e maggior impegno delle parti in causa; rafforzamento dei mercati e competitività nel settore della bioeconomia stessa.
Risulta imperativo anche un nuovo orientamento della formazione, soprattutto in ambito universitario. A tale scopo, è stato propedeutico il lancio di Horizon 2020 (programma quadro UE per la ricerca e l’innovazione), così come fondamentali sono la nascita di cooperazioni nel campo della ricerca a livello internazionale, la creazione di istituti di bioeconomia e di programmi di formazione post-laurea.
Un settore innovativo e di sicuro profitto: nel report ‘la bioeconomia in Italia: da nicchia a norma’, curato dal professor Edoardo Croci (coordinatore dell’Osservatorio Green Economy e direttore di ricerca dello IEFE, il centro di economia e politica dell’energia e dell’ambiente), viene stimato che “per ogni euro investito in ricerca ed innovazione del settore della bioeconomia attraverso adeguate politiche di sostegno a livello nazionale e comunitario, la ricaduta in valore aggiunto nei settori bio-based, sarà pari a dieci euro entro il 2025”.
Tuttavia, bisogna rilevare come, secondo alcuni, il concetto stesso di bioeconomia oggi abbia assunto un connotato diverso dall’originale. Sviluppata dall’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegennel, si accostava decisamente più ad un modello economico di decrescita piuttosto che di alta produttività.
Secondo Andrea Strozzi, dottore in Statistica Economica e fondatore del progetto “Low Living High Thinking”, ne è stata diffusa un’idea travisata, per certi versi persino dannosa poiché la condizione economica globale attuale dovrebbe avvicinarci più alla resilienza invece che a strategie di puro profitto.
Dice Strozzi dalle colonne del ‘Fatto Quotidiano’: “la bioeconomia non è “un grande potenziale di crescita economica e di creazione di posti di lavoro in zone industriali, rurali e costiere” (Commissione europea, 2012) né “lo scenario economico derivante dall’applicazione massiva delle biotecnologie al settore primario dell’economia” (Ocse, 2014).
“La soluzione prospettata dal padre della bioeconomia non risiede in un intervento sulle leggi che governano l’offerta, ma in una intenzionale rimodulazione globale della domanda. In altre parole: meno consumi. Che non devono essere stimolati bensì drasticamente inibiti”.
Probabilmente la linea dettata dalla UE avrà più successo ma questo non sta impedendo a molti di abbracciare la dottrina bioeconomica seguendo i precetti del suo fondatore. Saranno gli anni a venire, nel cosiddetto ‘lungo termine’, a dirci quale impostazione saprà rivelarsi davvero vincente.
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