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La COP 22 di Marrakech ha fatto registrare una pausa d’arresto rispetto ai lavori di Parigi. Forte l’influenza dell’esito elettorale statunitense.
Dal 1995 ogni anno si tiene la cosiddetta “conferenza delle parti organizzate” (conosciuta con l’acronimo di COP), meeting internazionale dei paesi aderenti alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change) durante i quali sono rivisti gli obiettivi di taglio alle emissioni e ridefinite le linee d’azione strategiche. Questo perché la convenzione quadro stipulata a Rio de Janeiro nel 1992, di fatto non ha posto inizialmente vincoli obbligatori per le parti firmatarie, rimandando, appunto, a successive conferenze l’adozione di misure operative.
L’Italia da sempre ha partecipato attivamente ai lavori (la COP 9 del 2003 si tenne a Milano) anche tramite l’adozione di provvedimenti finalizzati a recepire le decisioni adottate in sede di conferenza. L’ultimo in ordine di tempo è la legge 4 novembre 2016, n. 204 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 10 novembre 2016, n. 263) con la quale è stato ratificato l'Accordo di Parigi collegato alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, adottato a Parigi il 12 dicembre 2015. Per effetto del nuovo provvedimento l’Italia parteciperà, con uno stanziamento di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2016 al 2018, alla prima capitalizzazione del Green Climate Fund, fondo istituito durante la COP 16 del 2010 di Città del Messico per sostenere gli sforzi dei Paesi in via di sviluppo nel conseguimento degli impegni dell’accordo.
L’impegno economico dell’Italia, come di altri Paesi, rispecchia l’importanza dei traguardi conseguiti e degli obiettivi posti nell’ambito della COP 21 di Parigi. Innanzitutto, si è registrata la partecipazione sostanzialmente dell’intero pianeta, a partire dall’intera Europa e dagli Stati Uniti d’America (la cui futura posizione è ora resa incerta dal recente esito delle elezioni presidenziali), ma anche da Cina e India. Pure senza precedenti è la natura giuridica dell’accordo raggiunto: al termine della conferenza 195 paesi hanno adottato il primo accordo universale e, cosa ancora più ragguardevole, giuridicamente vincolante sul clima mondiale.
Frutto della COP 21 è stato il cosiddetto “Paris outcome”, documento firmato il 22 aprile 2016 a New York, tramite il quale i paesi aderenti si sono impegnati non solo ad arrestare l'aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, ma anche a limitare l'aumento a 1,5°C. Per raggiungere questi obiettivi sono state previste una serie di misure (taglio delle emissioni dal 2020, monitoraggio quinquennale dei lavori, presentazione di piani nazionali di azione per il clima completi o INDC), che, tuttavia, a osservatori attenti, sono parse fin da subito insufficienti; in particolare, i dati che emergono dall'Emission Gap Report” a cura dell'UNEP (United Nation Environmental Programme) mostrano come gli impegni di Parigi siano inadeguati rispetto all’obiettivo del + 2°C per il cui conseguimento sarebbe necessario un’ulteriore stretta del 25% rispetto a quanto indicato negli INDC.
Un quadro così incerto, reso ancora più precario dal risultato elettorale statunitense, ha inevitabilmente influito sui lavori della recente COP 22 di Marrakech (7-18 novembre) che ha fatto registrare una pausa d’arresto rispetto ai lavori di Parigi: pochissimi spunti operativi, molta cautela e la messa in discussione di strumenti quali il Green Climate Fund in termini di adeguatezza delle risorse rispetto agli obiettivi. Unici spunti operativi l’adozione di un programma di lavoro per codificare il regolamento dell’accordo di Parigi entro la COP24 del 2018 che quantomeno testimonia la volontà di proseguire nella direzione intrapresa un anno fa.
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