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Il club torinese domina per il quinto anno consecutivo il torneo calcistico della serie A TIM, ma da qualche tempo brilla anche per i risultati fuori dal campo: a novembre pubblicherà il terzo report di sostenibilità. Ne abbiamo parlato con Virginia Antonini, CSR manager di Juventus Football Club.
Il calcio è parte integrante della società globale ed essendo lo sport più popolare al mondo ricopre un ruolo fondamentale nella guida allo sviluppo sociale. Per dirla con le parole dell’AD Giuseppe Marotta “un club calcistico è una società privata di interesse pubblico”.
Parte da questa considerazione il confronto con Virginia Antonini, che da qualche mese ha assunto la responsabilità di introiettare sempre più i temi della sostenibilità all’interno del club campione d’Italia. Esordisce affermando che “una società di calcio è un’industria dove, come in altri contesti, la sostenibilità dev’essere qualcosa di integrato al core business, altrimenti finisce per essere un’attività residuale che nel tempo risulterà essere davvero poco sostenibile. D’altro canto il calcio, forte del potere mediatico che ricopre, può rappresentare un volano per promuovere una sostenibilità che non sia un mero fattore comunicativo, bensì un driver di valore e sviluppo”. “Non a caso - prosegue Antonini - il 6 aprile scorso il Segretario Generale ONU Ban Ki Moon ha affermato come lo sport sia uno strumento unico e potente per promuovere i diritti fondamentali dell’uomo, citando l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile”.
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L’occasione è propizia per chiedere conto ad Antonini quali siano le principali evidenze emerse durante il workshop dell’ECA, ospitato da Juventus, che ha visto la partecipazione di oltre 60 club europei. La European Club Association, che ha sostituito nel 2008 il G14 del calcio europeo e la cui missione è la protezione e la promozione del calcio dei club europei, ha lanciato lo scorso gennaio una “CSR task force” per provare a individuare una definizione condivisa di sostenibilità, mettendo a fattor comune le diverse esperienze - anche se neppure in seno all’Unione Europea o alle Nazioni Unite dice Antonini esiste ancora un consolidato punto d’incontro - e definire un modello gestionale comune che non veda la sostenibilità come un mero approccio sociale ma, secondo una concezione innovativa e sempre più accettata, contempli anche la dimensione ambientale e soprattutto economica. Sono così stati organizzati dei gruppi di lavoro suddivisi per le tre aree di business comuni a tutti i club - gestione sportiva, gestione dello stadio anche se non di proprietà e gestione degli intangibles (comunicazione e brand) - per capire come ognuno affronti la sostenibilità con l’obiettivo di arrivare a definire un framework condiviso.
Tornando poi in casa Juve, la società si appresta a presentare nel prossimo novembre il terzo report di sostenibilità, redatto ispirandosi ai criteri del G4 del Global Reporting Initiative e che la potrebbe portare ad essere una sorta di case study nel settore calcistico visto che non esistono ancora delle linee guida specifiche per il mondo del pallone, ma solo per i grandi eventi come le Olimpiadi. Antonini non se la sente di aggiungere altro e ci dà appuntamento in autunno; la sensazione che ci rimane è che il club bianconero rimanga ancora un marziano per tutti gli altri club italiani, che però presto dovranno adeguarsi se vorranno continuare a competere ad alti livelli.
Di questo approccio alla sostenibilità da parte del mondo del pallone ne abbiamo parlato anche con Fabio Iraldo, Direttore della Ricerca IEFE di Università Bocconi ed esperto dei temi legati alla sostenibilità, che non si è detto per nulla sorpreso da questo “nuovo corso” visto che le società calcistiche sono sempre più delle aziende. Infatti, già nei primi anni 2000 alcune società cominciarono ad esplorare questi sentieri: il Padova Calcio con Banca Etica e più recentemente l’Atalanta grazie alla sensibilità sviluppata in altri settori dal Gruppo Percassi, proprietario del club orobico, ne sono due esempi.
Una filosofia, sempre secondo Iraldo, molto legata alla sfera del sociale e in particolare della charity che nel mondo del calcio attecchisce per la “facilità” di implementazione e per un potenziale mediatico che rende subito evidente l’impegno della società che la sostiene. Iraldo, che ritiene lodevoli queste iniziative, auspica una visione della sostenibilità più allargata e in questo senso legge l’esperienza di Juventus come un giro di boa per il calcio italiano. La strada quindi è quella intrapresa da alcuni club europei che da tempo hanno rivolto le loro energie sul versante ambientale; la felice esperienza dei “Green Goal” durante FIFA World Cup Germany 2006 è un’esperienza che non ha trovato purtroppo molto seguito a detta sempre del professor Iraldo, che auspica uno scatto deciso della FIGC che, forte del suo ruolo, dovrebbe sviluppare dei sistemi incentivanti che promuovano l’adozione di buone pratiche da parte dei club.
La chiosa finale riguarda la possibilità che l’adozione di un approccio sostenibile da parte delle società possa rendere l’industria del pallone più attrattiva e competitiva nel confronto con gli altri campionati europei. La risposta non può essere definitiva: di sicuro i grandi investitori che si stanno affacciando sul mercato italiano porteranno delle novità manageriali che scompagineranno la vecchia visione dell’uomo solo al comando, che grazie al suo carisma sopperiva ad ogni possibile mancanza manageriale o economica. Grandi gruppi multi business poco introdotti nel nuovo contesto, si pensi al sodalizio Suning-Inter, avranno bisogno di adottare nuovi e più attuali razionali di giudizio per relazionarsi con la composita platea degli stakeholder e l’adozione di strumenti propri del reporting di sostenibilità potrebbe rappresentare lo strumento ideale.
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