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Il D.P.C.M. 7 marzo 2016 avrebbe dovuto mettere a fuoco lo scenario regione per regione, ma i dati scelti come base di partenza rischiano di restituire un quadro parzialmente inattendibile.
Al di là delle intuibili ripercussioni ambientali, il recupero della frazione organica dalla raccolta differenziata dei rifiuti urbani ha anche una valenza sanitaria ed economica, in quanto permette di riutilizzare materiale che sarebbe destinato al conferimento in discarica. Non deve stupire, quindi, che il tema della disponibilità di impianti per il trattamento della frazione organica dei rifiuti urbani sia stato fatto oggetto di provvedimento legislativo con l’art. 35, comma 2 del decreto “sblocca Italia” (D.L. n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 164/2014), che aveva previsto un’attività finalizzata a mettere a fuoco la disponibilità esistente e un successivo decreto del Ministero dell’Ambiente sul fabbisogno residuo di impianti dettagliato regione per regione.
A questo scopo, anche se in ritardo rispetto ai tempi previsti (teoricamente entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione n. 164/2014), è stato recentemente pubblicato (Gazzetta Ufficiale del 19 aprile 2016, n. 91) il D.P.C.M. 7 marzo 2016, il cui obiettivo principale è di pervenire a un «progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale».
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re sono quindi le linee di azione del D.P.C.M. 7 marzo 2016: fare il punto della situazione sull’offerta esistente, stimare il fabbisogno teorico di trattamento e, su questa base, determinare la richiesta residua di impianti. Quello che tuttavia, non può essere ignorato, è che, a monte di tutta l’analisi, sono stati presi in considerazione dati difformi che rischiano di minarne la validità.
Per il primo punto (offerta esistente; Allegato I), infatti, il legislatore si è basato sui dati forniti da Ispra relativamente all’anno 2013, considerando unicamente gli impianti (con una capacità superiore a 1.000 ton/anno) che trattano rifiuti da aree verdi (parchi e giardini) e di origine alimentare, in esercizio al 2013. Quest’ultimo requisito ha, però, inevitabilmente, portato a sottostimare il dato finale perché non ha “tagliato fuori” gli impianti avviati negli ultimi tre anni. Il disallineamento dei dati è ancora più evidente se si considera che la stima del fabbisogno teorico (Allegato II), calcolata come prodotto tra la quantità media pro-capite della frazione organica dei rifiuti urbani raccoglibile e il numero di abitanti di ciascuna regione, è stata riferita a dati 2014.
Incongruenza che, a sua volta, rischia di riflettersi anche sul terzo dato (richiesta residua di impianti;Allegato III) che è la semplice differenza tra l’offerta esistente all’interno delle singole regioni (Allegato I) e il fabbisogno teorico (Allegato II). Il quadro che emerge, peraltro, vede un primo gruppo di regioni (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte Puglia, Sardegna, Umbria, Valle d’Aosta e Veneto) con un numero di impianti adeguato rispetto al fabbisogno, contrapposto a un secondo raggruppamento (nel quale spiccano Campania, Lazio, Lombardia e Sicilia) con uno scarto tra necessità e capacità di trattamento degli impianti.
In buona sostanza, questo strumento di analisi, dettato da esigenze non solo di conformità legislativa (si pensi agli obiettivi sulle percentuali di diminuzione del conferimento in discarica e di aumento della raccolta differenziata, imposti dall’Unione Europea agli stati membri), ma anche di tipo socio-sanitario, rischia di essere invalidato come attendibilità e, di conseguenza, come effettiva utilità.
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