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La proposta, arrivata dal Consiglio Etico Danese, intende dare una svolta sostenibile alla produzione e al consumo interno, ma l’alto numero di esportazioni, l’assenza di coordinamento con altri Paesi e la scarsa fiducia nei cittadini renderanno il provvedimento inefficace.
Da tempo si dibatte su quali possano essere le conseguenze di un’elevata produzione e consumo di carne rossa per la salute dell’uomo e per l’ecosistema. Casi mediatici come il documentario ambientale Cowspiracy o il libro The Big Fat Surprise di Nina Teicholz hanno scosso l’opinione pubblica, mentre il rapporto dello IARC – la carne rossa classificata come altamente cancerogena – e la recente posizione della Carnegie Mellon University – il consumo di carne è più sostenibile di quello vegetale – hanno alimentato la discussione nella comunità scientifica. Ma mentre il coinvolgimento dei singoli cittadini aumentava, i Governi si sono sempre ben guardati dal prendere posizione, tanto che il dibattito non è stato affrontato nella recente COP21.
In Danimarca, però, se ne parlava da sette mesi, ancor prima della Conferenza parigina. Il punto non era determinare se tale alimento fosse o meno poco salutare, perché un gruppo di esperti del Det Etiske Rad (Consiglio Etico Danese) aveva già sancito che la carne di manzo avesse un impatto troppo negativo sull’ambiente. Il punto era decidere come porre la questione ai cittadini, quali margini di libertà lasciar loro per affrontare il problema. E il 25 Aprile, con un conciso comunicato stampa, il responso è giunto ineluttabile: la carne rossa sarà tassata.
Se formalmente la decisione non è ancora ufficiale, perché le proposte del Consiglio Etico Danese devono ricevere l’approvazione del Governo prima di entrare in vigore, la sua applicazione sembra scontata. “Lasciare ai singoli la libertà di decidere se optare per scelte più o meno sostenibili sarebbe stato meno efficace” – si legge sul comunicato – “è una questione morale e i danesi devono sentirsi eticamente obbligati a modificare le proprie abitudini alimentari”.
Va detto che i danesi non sono stati i primi a ponderare una decisione del genere. A novembre, un altro gruppo di esperti, in questo caso quelli della Chatham House britannica, avevano auspicato simili linee guida, preventivando che, applicando alla carne una tassa di £1,76 al kg, il consumo si sarebbe ridotto del 14%. Ma il Governo non se l’era sentita di andare fino in fondo, temendo una reazione ostile da parte di consumatori e comitati. Copenaghen, invece, è pronta a dire sì all’introduzione di una nuova barriera economica.
“Di fronte a una domanda mondiale di carne che secondo la Fao aumenterà del 50% entro il 2050, bisogna reagire cercando di produrre innovazioni, non immaginando surreali schemi di tassazione” – commenta a Nonsoloambiente Alberto Mingardi, Direttore Generale dell’Istituto Bruno Leoni. “La nostra civiltà si fonda sulla divisione del lavoro, e per ampliarne i confini è essenziale ridurre le barriere, consentire la libertà di movimento e migliorare le comunicazioni. Se la strada verso la sostenibilità ambientale è una strada di divieti, sarà anche una strada breve”. Inoltre, al di là che si sia favorevoli o meno all’idea del Consiglio, l’efficacia sarà comunque relativa, perché è vero che la Danimarca, secondo i dati Eurostat, è ancora la più grande consumatrice pro capite di carne bovina di tutta l’UE insieme alla Francia; ma è altrettanto veritiero che la percentuale di esportazioni è talmente elevata da rendere minime le conseguenze dirette del provvedimento. Nel concreto, la tassazione servirebbe a poco contro le emissioni globali e anche il crollo del consumo di carne in Danimarca non sarebbe così scontato.
“Nel caso il tributo sia molto basso” – prosegue Mingardi – “è possibile che le persone semplicemente non se ne accorgano. Se il tributo è alto, invece, immagino che i danesi faranno volentieri qualche gita in Germania in più, per comprare qualche taglio di carne”. Se così non fosse, tale decreto potrebbe contribuire ad aumentare il divario sociale in termini di consumo, con le fasce più benestanti della popolazione che continuerebbero a consumare carne rossa e quelle meno abbienti che se ne priverebbero.
Non è ancora chiaro come saranno utilizzati gli eventuali proventi e se saranno effettivamente investiti in iniziative a sfondo ambientale, mentre i cittadini potrebbero vivere l’atto come una privazione dei propri diritti. “C’è l’idea che sia dovere dello Stato orientare la dieta dei cittadini. Thomas Jefferson polemizzava contro le intromissioni dello Stato nella vita religiosa dei cittadini, dicendo che ‘se fosse lo Stato a dovere prescriverci le medicine e la dieta, il nostro corpo si troverebbe in uno stato non diverso da quello in cui si trova oggi la nostra anima" – conclude Mingardi - oggi ci tocca rivendicare la separazione fra Stato e dieta, come un tempo chiedevamo quella fra Stato e Chiesa”.
Per il portavoce del Consiglio, Mickey Gjerris, la mossa “crea consapevolezza sul tema. La società deve mandare un segnale chiaro attraverso la legislazione”, ma il rischio è che venga interpretata come una forzatura di difficile comprensione, con la naturale conseguenza di ottenere l’effetto contrario. Servirebbe chiarezza e trasparenza, prima di tutto, una disamina pubblica del problema, un progetto di educazione alla sostenibilità che possa concretamente portare il singolo ad avere gli strumenti adatti per effettuare liberamente e coscienziosamente le proprie scelte. Senza che i rappresentanti di uno Stato debbano dichiarare pubblicamente di non avere fiducia nei propri cittadini.
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