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Le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo non hanno ancora raggiunto uno sviluppo sostenibile: cresce l'impronta ecologica, diminuiscono i terreni ecologicamente produttivi e circa il 90% della popolazione ha un livello di consumo ben al di sopra della biocapacità del pianeta.
Un solo pianeta non basta: questo, in sintesi, il risultato dello studio "Come possono le società mediterranee prosperare in un'era di scarse risorse" realizzato da Global Footprint Network, Fondazione MAVA e Programma Mediterraneo del WWF.
Il focus è il bacino del mediterraneo e la fotografia che esce dall'analisi degli indicatori è abbastanza impietosa. L'area vive decisamente al di sopra dei limiti delle risorse disponibili. L'impronta ecologica pro capite dei paesi mediterranei (ovvero quell'indice che misura i consumi di risorse naturali in funzione della capacità del pianeta di rigenerarle) è cresciuta del 54% negli ultimi 50 anni a fronte di un calo del 21% della biocapacità pro capite.
Il calo della disponibilità dei terreni ecologicamente produttivi e in particolare la riduzione delle superfici boschive e forestali sono generalmente da collegare a una costante espansione delle aeree cementificate destinate ad aree urbane o ad aree produttive e commerciali. Aree, quest'ultime, "necessarie" per rispondere a una tendenziale crescita degli stili di vita che, al netto delle crisi di sistema e dei conflitti locali, hanno comunque caratterizzato gli ultimi decenni dei paesi che si affacciano sul Mare Nostrum.
Proprio gli stili di vita, soprattutto quelli alimentari, costituiscono un focus importante dello studio in oggetto. La crescita dei consumi ha portato a un'esplosione della superficie produttiva procapite necessaria con una media dell'area mediterranea di 0,9 ettari (con punte di 1,5 ettari) contro gli 0,4 ettari dell'India, gli 0,5 ettari della Cina o gli 0,8 ettari della Germania.
Un'esplosione alla quale fanno da contraltare la riduzione delle aree disponibili, la bassa produttività agricola e la scarsità d'acqua.
In questo caso, però, la crescita dei consumi non è necessariamente indice di sviluppo di un benessere diffuso. La tendenziale sostituzione della tradizionale dieta mediterranea con diete a elevato impatto proteico sottende una sempre più stretta dipendenza da cibi importati e da alimenti che, in fase produttiva, generano impatti significativi (13 kg di mangimi e 15.000 litri di acqua per la produzione di un chilo di carne). Intervenire è ormai necessario e proprio nella spinta al cambiamento e al miglioramento degli stili di vita e di consumo, si possono individuare alcuni degli obiettivi fondamentali della comunicazione di sostenibilità. Bisogna creare una nuova attenzione e sensibilità rilanciando la dieta mediterranea e valorizzando le biodiversità.
Di converso resta altresì evidente che un miglioramento degli stili di consumo deve passare dalla ricerca di nuovi equilibri e senza "estremismi". Rilanciare l'alimentazione tipica dell'area mediterranea non deve condurre all'eliminazione dei consumi di carne e latticini. Allarmi, come quelli lanciati negli ultimi giorni dall'OMS, devono essere letti proprio nella direzione di una necessaria ricerca di un sano bilanciamento alimentare e non nella soppressione tout court di alcuni cibi. Soppressione che porterebbe anche alla crisi di intere filiere agroalimentari (pensiamo all'importanza della produzione di latticini per sistemi paese come quello italiano) con evidenti ritorni negativi in termini di sviluppo economico ed occupazione.
E proprio questa rappresenta una delle principali sfide della sostenibilità: migliorare lo stile di vita, migliorare i cicli di produzione riducendo gli impatti il tutto però senza far regredire il benessere collettivo e senza impattare negativamente sullo sviluppo economico.
Una sfida da cogliere e... da vincere.
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