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Nel mondo della moda l'attenzione alla sostenibilità fatica ancora a farsi strada. Ma con l'affermazione di un consumatore più responsabile, molti brand stanno rivedendo le proprie strategie produttive e di comunicazione.
È di questi giorni il lancio di Conscious Exclusive 2015 di H&M, la nuova linea di abbigliamento del colosso svedese che punta a esaltare il binomio moda ed eco-sostenibilità. Apparentemente un ammiccamento a un trend non solo di mercato ma culturale, che però sembra sottendere un approccio alla sostenibilità non estemporaneo ma strutturato in modo trasversale e pervasivo in tutta l'impresa. Navigando il sito del brand si scopre un'ampia sezione che presenta come l'azienda sia attenta non solo agli aspetti di sostenibilità dei materiali, dei prodotti e dei processi produttivi ma anche agli aspetti sociali legati alle condizioni di lavoro e alle giuste retribuzioni. Siamo di fronte a uno dei tanti esempi che ci può far dire che anche il mondo della moda ha scoperto la sostenibilità.
Un ambito, quello del fashion, molto complesso, che offre ampi spazi per un'applicazione seria della sostenibilità, ma che allo stesso tempo presenta ancora qualche area grigia. Sicuramente la tendenza è quella che va verso l'affermazione di un modello che possiamo definire delle tre "e": estetica, eco-sostenibilità, etica.
Il consumatore si sta indirizzando in modo forte e inequivocabile non solo verso la sostenibilità ma più in generale verso un lifestyle responsabile (e questo non solo nella moda o nel food), così le aziende si trovano costrette a rivedere i propri paradigmi per rispondere da una parte a un'evoluzione ineluttabile del mercato, dall'altra per assicurare un percorso di sviluppo altrimenti non più sicuro se basato sui vecchi modelli legati al consumo indiscriminato delle risorse.
Il primo fronte è sicuramente quello della sostenibilità ambientale. Contrariamente al titolo del famoso film di Vanzina del 1985, sotto il vestito... c'è la produzione. Ovvero ci sono risorse, processi, capannoni, forza lavoro. Come in tutti i settori produttivi, anche nel fashion deve essere applicato l'approccio che punta alla misurazione e alla validazione degli impatti ambientali in tutta la fase del processo produttivo (LCA – Life Cycle Assesment). I fattori che entrano in gioco sono numerosi: dall'approvvigionamento di materie prime naturali o derivanti dal riciclo, alla riduzione dei fabbisogni idrici (particolarmente ingenti in questo settore) fino all'innovazione in chiave ecologica dei processi di tintura e finissaggio. In particolare l'approccio LCA nel fashion può essere esteso al concetto di LCD - Life Cycle Design, ovvero lo sviluppo di una creatività e di un design non più solo finalizzati alla creazione di un oggetto ma attenti a tutta la filiera.
Un altro aspetto, spesso trascurato ma che in ottica estesa deve essere preso in considerazione, è legato agli show-room. Un'azienda fashion può essere ritenuta sostenibile se utilizza un tessuto derivante da coltura biologica, magari debitamente tracciato ed etichettato, ma poi espone i propri capi in show room di proprietà altamente energivori?
Sostenibilità non vuol dire solo rispetto dell'ambiente, vuol dire anche sostenibilità sociale ovvero rispetto dei diritti umani, giusti salari, garanzia di condizioni di lavoro sicure e salubri. E qui la questione si complica. La delocalizzazione delle fasi produttive maggiormente labour intensive nelle aree a più basso costo del lavoro (ovvero tendenzialmente nelle zone più povere e in via di sviluppo del pianeta) possono far immaginare, in alcuni casi, più di qualche lacuna sul fronte della sostenibilità sociale. In fin dei conti, trovare in un punto vendita un capo a qualche decina di euro presuppone un costo di produzione veramente ridotto e difficilmente in grado di assicurare le giuste condizioni di lavoro e adeguate retribuzioni agli addetti.
Nonostante le politiche di prezzo aggressive, uno studio dell'Asia Floor Wage Alliance (AFW) evidenzia che i grandi brand e le grandi catene di distribuzione hanno, su un capo confezionato in Asia, un'aspettativa di profitto pari ad almeno quattro volte il costo di produzione totale comprensivo del trasporto. Allo stesso tempo questo studio sottolinea come per lo stesso capo il costo del lavoro incide per meno del 3% del prezzo finale e che il 60% della produzione dell'abbigliamento mondiale è concentrato in Asia occupando circa 100 milioni di addetti, per la maggior parte donne, che lavorano in molti casi in condizioni decisamente poco sostenibili.
Così un'applicazione concreta dei principi di sostenibilità ambientale perde ogni valenza se non accompagnata da un reale impegno anche sul fronte sociale. Molte aziende stando andando in questa direzione ma ancora in molti (troppi) casi le condizioni di lavoro sono assolutamente al di sotto della sufficienza. Il cliente ha però il grandissimo potere di premiare con la propria scelta le aziende che non solo dichiarino ma che si dimostrino con i fatti virtuose. La sostenibilità diventa, così, non solo un fattore competitivo differenziale e sul quale costruire una valenza di marca ma una conditio sine qua non per essere presi in considerazione dal mercato.
Un'ultima considerazione può abbracciare un concetto ancora più ampio di sostenibilità ma che, in prospettiva, potrà caratterizzare in modo chiaro le aziende del fashion. Se la sostenibilità può essere letta come un modello evolutivo simbolico e culturale degli stili di vita, il lifestyle sostenibile non può non considerare anche gli stilemi comunicativi che amplificano e trasmettono questi stili di vita. Un'azienda fashion attenta alla sostenibilità ambientale, può essere ritenuta realmente sostenibile se adotta come paradigma comunicativo un modello centrato su un uso distorto della figura femminile (pensiamo ai problemi legati all'anoressia o alla comunicazione di genere)?
Come detto in apertura, il rutilante mondo della moda ha scoperto la sostenibilità ma il percorso, forse, è ancora lungo e tortuoso.
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